I MONOLOGHI INTERIORI DI ENZO MARTINI
Affollamento, solitudine.
I due concetti, nella pittura di Enzo Martini, si compenetrano illuminando con un senso di irreversibilità e di infinito il loro assimilarsi l’un l’altro.
Ma dove, in quale luogo della mente o della superficie dipinta, l’affollamento e la solitudine si assimilano nel congiungere e intrecciare le fibre di un’unica idea? In una dimensione ineluttabile di lontananza: ecco dove i due concetti contrari trovano fusione nei termini di un linguaggio e nell’unicità di un postulato (contenutistico, prima che estetico).
L’acceso cromatismo di Martini (talvolta violento, non di rado provocatorio, ora filiforme, ora spanso in deflagrazioni entro i margini di una centralità capace di trasfigurarsi in luce proprio grazie alla sua significazione di oscurità) trasforma lo smalto del segno in monologo interiore, se si considera il dettaglio della tela; e in un messaggio, se si considera l’opera globalmente.
Segno e colore costituiscono una sola entità, sono i due poli espressivi di un solo organismo; è infatti il gesto, l’azione stessa fisica e creativa del pittore, l’elemento primo e principe che consente di penetrare nei labirinti peculiari di questa pittura, la quale ha in sé fessure aperte sul comportamentismo e insieme possiede la statica radice dell’icona, ha il lampo d’immediatezza dell’afflato e la distillazione della trans, la valenza di una logica musicale intimamente vissuta e materializzata in una sonorità visuale e al contempo evoca la parola, una parola a cui viene concesso il privilegio comunicativo del colore, l’elasticità del puro pensiero, il potere di coesione tra gli infiniti percorsi della mente, la dote di rivelare quella mappa di allarmi annidati tra percezione e sentimento; anzi, di essere tale mappa.
Affollamento, solitudine.
Attraverso questa pittura (vitale, appunto, della e nella sua unicità di linguaggio, dove sembra rifondarsi una diversa accezione funzionale della pittura), è possibile comprendere il singolo isolamento nella folla delle sollecitazioni e nel medesimo istante soffrire la vertigine del trovarsi drammaticamente soli: qui si realizza e si concreta l’attimo/luogo degli allarmi che sfumano ogni demarcazione tra percezione e sentimento: Ed è qui che Martini essenzialmente dipinge, quasi da una sfera di inevitabile esilio, poiché l’azione dell’artista, nel caso specifico, è anche azione constatativa e di denuncia, atto affettivo e amara testimonianza.
Da questo ‘esilio’ si diramano e si intrecciano la desolazione e l’amore, l’immagine del disfacimento e l’apertura a diverse strutture etiche della vita, la coscienza dell’irrimediabilmente finito e l’indicazione di altri – più veri – orizzonti esistenziali.
Ciò che l’uomo ha compromesso o disfatto può essere risarcito e ricomposto: questo dice un segno pittorico in cui fluttuano e convivono nei loro valori esponenziali l’ordine del grafico e il coacervo del caos, lo slancio lirico di una linea potenzialmente senza fine e un cromatismo spontaneo e viscerale, una sintassi sconvolta e il soprassalto del messaggio sostanziale.
Enzo Martini non è pittore narrativo, non trasferisce la dolcezza e la violenza dei suoi smalti lungo la convenzione di un racconto visivo: nondimeno i suoi quadri raffigurano l’uomo e il paesaggio, o meglio, il nucleo dell’uomo nei deserti della contemplazione e nelle ipotesi di quei ‘paesaggi’ che all’uomo sono connaturati come archetipi. L’alfabeto della sua arte acquista le tracce del transito delle civiltà e auspica la rinascita di una più calda e profonda idea di consapevolezza civile. È perciò alfabeto di intensa poesia e altresì politico, impietosamente critico e commosso. E talvolta la dimensione dell’esilio si irradia con le tinte dell’elegia.
Del resto: quale artista non vive il suo esilio? Quale linguaggio non segue la necessità interna del proprio codice, del proprio ‘altrove’?
La tensione compositiva è l’espressione matura dell’esperienza, e in ogni esperienza pulsa un intimo fuoco emozionale di esilio, di separazione: quasi febbrile, nel caso di Martini.